Il concetto di cittadinanza è sicuramente un argomento di dibattito che lascia ben pochi indifferenti. L’importanza di riconoscersi in una nazionalità è un diritto di ognuno. Il riconoscersi in una nazione è scontato per alcuni quanto complesso per altri. L’uomo, come essere sociale, trova valore nel percepirsi come parte di un gruppo e di una comunità, nella quale è a suo agio per usi, costumi, lingua e tradizioni. Questo senso di comunità e di appartenenza non è solo appagato da sensazioni individuali, secondo le quali un individuo può sentirsi più o meno allineato con un gruppo sociale, ma viene anche soddisfatto da conferme esterne, sia che arrivino da altri membri di questo gruppo, espresse dall’accettazione e dal riconoscimento reciproco come esseri simili, sia che provengano da istituzioni che la ufficializzano tramite il riconoscimento della cittadinanza.
Nel mondo moderno, possedere una cittadinanza piuttosto che un’altra, rappresenta uno status. Pensiamo a tutte le opportunità che ci vengono offerte sulla base della nostra nazionalità, dai semplici viaggi in paesi esteri, ad opportunità lavorative, all’abilità di votare e poter contribuire come voce attiva nei dibattiti decisionali che riguardano le nostre vite.
Il modo nel quale ci viene data la nazionalità, è argomento di dibattito in vari paesi intorno al mondo: è più giusto acquisirla per sangue o per geografia nel momento della nascita? Cosa ci lega davvero ad un paese? Cosa ci rende cittadini? Queste sono sicuramente domande complesse a cui diversi studiosi provano a rispondere. Ma in questo contesto di grandi quesiti ideologici, parliamo di storie vere, di storie di vite autentiche che sono importanti e uniche quanto riflessive di sistemi complessi e non sempre giusti. Prendere in considerazione esempi tangibili di vite autentiche è l’obiettivo di questo articolo.
Alice e Valeria, figlie della co-fondatrice e ideatrice di KISEDET, sono nate e cresciute in Tanzania da genitori italiani e hanno trascorso tutta la loro vita nel paese dell’Africa Orientale. Nonostante ciò le due giovani non vengono riconosciute come cittadine tanzaniane, poiché in Tanzania, come in molti paesi attorno al mondo, la doppia cittadinanza non esiste. Per poter rimanere nel paese in cui sono nate e cresciute, devono rinnovare il visto ogni due anni. Attualmente beneficiano di un visto da studentesse, ma qualora volessero lavorare, si troverebbero di fronte a un problema significativo: ottenere un permesso di lavoro e residenza che, in Tanzania, ha un costo elevato, pari a 1.550 dollari. Questo significa che, anche volendo svolgere un lavoro umile, difficilmente riuscirebbero a guadagnare abbastanza per poter coprire questa spesa ogni due anni. Il loro legame con la Tanzania è profondo e autentico, eppure le regole burocratiche impongono barriere che rendono difficile vivere e lavorare nel proprio paese d’origine con serenità.

Nonostante lo Swahili sia la loro lingua madre, e non abbiano mai vissuto in nessun altro paese, le due giovani si sentono costantemente sotto interrogazione con domande, provenienti sia da italiani che da tanzaniani, tipo: “ma preferisci l’Italia o la Tanzania?” (a cui potrebbero volentieri rispondere con un secco “non lo so, non ho mai vissuto in Italia”), o ancora: “ma come ti trovi a vivere là?” – come se questo “là” fosse riferito ad una terra a loro aliena e straniera, come se fosse inimmaginabile concepire una ragazza di origine europea che nasce e cresce in un paese africano, che parla lo Swahili come prima lingua, e che conosce la Tanzania, la sua terra, come le sue tasche.
I Tanzaniani, spesso, rimangono scioccati che le ragazze parlino lo swahili con un accento identico al loro: “ma come fate a parlare così bene lo swahili”? A questo quesito rispondono che, al contrario, se proprio dovessero scioccarsi per qualcosa, dovrebbero sorprendersi se non conoscessero qualche parola di swahili.
Queste domande sono forse più frutto di un pregiudizio e della volontà di confermare il preconcetto che, effettivamente, un individuo con la pelle scura non può sentirsi ed essere europeo, mentre uno con la pelle chiara non può essere di certo africano. Il colore della pelle non dovrebbe essere indicativo della propria nazionalità, e seppure i connotati predominanti di un popolo rimangano, nella maggior parte dei casi, una visibile realtà, è importante non categorizzare. La costante interrogazione sulla propria identità non è facile e può spesso essere destabilizzante. Questa, purtroppo, è una realtà per molti individui in tutto il mondo e queste pressanti domande, che potrebbero sembrare innocue, diventano spesso motivo di malessere. Bambin* e ragazzi* in tutto il mondo si trovano a questionarsi sulla propria identità nazionale, che non sempre è una coerente riflessione del loro sentimento di appartenenza. Quando ci lasciamo guidare da pregiudizi e stereotipi, per cui, l’aspetto fisico indica sempre ed automaticamente una nazionalità, ci dimentichiamo di un mondo che continua a cambiare e ad evolversi, nel quale gli individui non sono necessariamente inquadrabili in una stretta definizione di sembianze nazionali. Il vero “vivere” una nazione, rispettandone gli usi e i costumi, creano una relazione vera e inconfutabile con un paese.
Il mancato riconoscimento dell’identità nazionale, che sia riflessiva di un vissuto individuale ed autentico, è una lacuna istituzionale. Per questi casi sta alla nostra sensibilità e al nostro dovuto riguardo verso l’altro, l’integrare e l’includere con maggiore intenzione coloro che vengono esclusi dal sistema per ragioni burocratiche.
È nell’interesse di tutti vivere in una società dove integrazione e rispetto reciproco, anche nella diversità, esistano al fine di sviluppare comunità tolleranti e rivolte al rispetto verso l’altro.